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Leadership, Emanuela Spernazzati: “Autoritario o relazionale? Il ‘capo’ ideale è quello flessibile”

Di leader e leadership si parla continuamente. Del resto, è ormai acclarato da studi e ricerche che è proprio la figura del “capo”, del responsabile, del referente diretto ad avere un grosso impatto sul benessere dei membri del suo team.

Se fino a qualche anno fa lo stile di leadership più diffuso era quello autoritario, basato su comando e controllo, oggi anche i “boss” sono cambiati e hanno capito i benefici di una leadership relazionale, fondata su rapporti collaborativi ed empatici con le persone con cui lavorano.

Un modello di leadership sempre più apprezzato, quello relazionale, ma che ancora può destare qualche dubbio. L’immagine del capo “tutto di un pezzo” resta viva nella mente di chi confonde il prendersi cura delle relazioni sul lavoro con debolezza o lassità.

E se invece il boss del futuro fosse proprio quello che non ha bisogno di essere impositivo? Abbiamo affrontato il tema della leadership e dei suoi effetti sul clima aziendale con Emanuela Spernazzati, Consulente di Carriera, Orientatrice, Recruiter, Coach e Responsabile Risorse Umane.

I termini leader e leadership rimandano spesso all’immagine di una persona risoluta e autoritaria che attribuisce incarichi e obiettivi a un team obbediente e sottomesso. Quanto questa idea di leadership è ancora presente nella nostra società? 

È ancora sicuramente presente ma in declino l’idea in un capo di questo tipo, anche se il processo di cambiamento culturale sta avvenendo, a mio avviso, “a macchia di leopardo” a seconda dei vari settori e delle varie tipologie aziendali.

Negli ultimi decenni, infatti, le aziende sono cambiate tantissimo: in un mercato più instabile, competitivo, complesso e imprevedibile hanno dovuto diventare più flessibili e più attente alle minime variazioni per reagire prontamente alle nuove tendenze.

In questa prospettiva si è visto quanto sia importante avere il contributo attivo dei collaboratori.

Si è visto anche che coinvolgere invece che ordinare porta a un grado di partecipazione maggiore.

Il fatto è che coinvolgere richiede più sforzo e più tempo, richiede di avvicinarsi ai propri collaboratori, di attivare la buona comunicazione, e spesso le aziende vanno troppo di fretta, guardando tanto ai risultati e poco alle persone che li aiuteranno aa raggiungerli.

Non dimentichiamoci poi che le nuove generazioni hanno valori e bisogni differenti da quelle precedenti e chiedono spazio personale, ascolto e relazioni più simmetriche che gerarchiche.

Ecco perché le aziende si trovano a dover cambiare per poter continuare ad esistere.

Nel post pandemia è molto cambiato l’approccio al lavoro e chi si trova in posizioni di coordinamento e guida ha dovuto a sua volta cambiare lo stile di leadership. Quali sono i punti di forza della leadership relazionale a cui molti manager oggi si ispirano?

La leadership relazionale, come dice la parola stessa, si concentra sulla costruzione di relazioni sane e positive tra collaboratori anche di livelli differenti, nella certezza che buone relazioni a loro volta genereranno un buon clima aziendale e quindi benessere per le persone, che porteranno maggior vantaggio all’azienda. Si costituisce così un circolo virtuoso.

Come dicevamo precedentemente, nell’attuale scenario di business così complesso è essenziale che ogni attore faccia la sua parte affinché l’azienda sappia prevedere o almeno rispondere efficacemente e velocemente ai cambi di direzione del mercato.

Per questo motivo le persone devono essere nelle condizioni di dare il meglio di loro, devono sentirsi parte di un progetto e devono potersi muovere con un certo margine di autonomia per poter essere proattivi e propositivi.

Ovviamente ci sono ruoli in cui queste sono esigenze prioritarie e ruoli in cui lo sono meno, ma in generale un coinvolgimento delle persone porta a risultati migliori e costi inferiori a quelli che si ottengono con il puro controllo.

Ecco che la leadership relazionale si focalizza sulla costruzione di relazioni proficue, all’interno delle quali le persone possono dare il loro meglio con responsabilità ma senza paura di sbagliare e sentendosi rispettate e valutate, non sfruttate.

I manager, ma anche le aziende e i lavoratori, sono pronti per questo tipo di leadership, così diversa rispetto al passato?

Credo che il cambiamento non ci trovi mai pronti al 100%, ma ci stiamo lavorando.

Diciamo che non abbiamo altra via: il mercato e le persone ci chiedono questo e i manager si stanno attrezzando acquisendo le competenze necessarie quali la capacità di delega, la buona comunicazione e l’empatia, ad esempio.

Consideriamo inoltre che i principi alla base della leadership relazionale non sono una scoperta di questi anni, abbiamo esempi illustri nel lontano passato e ne parlava in maniera chiara già negli anni ‘60 Mc Gregor con la sua “Teoria X e Teoria Y”.

Non c’è il rischio che un leader empatico e relazionale possa essere considerato più debole o indeciso di un leader autoritario?

Questo è un punto importante, perché esiste effettivamente il rischio di confondere la cura per le persone e per le relazioni che si instaurano con esse con la debolezza. Ma non è così.

Le nuove forme di leadership, come la leadership situazionale o la Servant Leadership proposta dall’Agile HR, promuovono un’attenzione verso il collaboratore che porti quest’ultimo a dare il meglio di sé nell’organizzazione, ma non si tratta di lassismo e, anzi, si parla di responsabilizzazione dello stesso.

Attenzione verso la persona significa anche capire quali sono le sue inclinazioni e come sfruttarle al massimo per far esprimere il talento innato ma anche per portare vantaggio all’azienda.

Se ben applicata questa tipologia di leadership crea un ambiente favorevole che avvicina gli obiettivi di aziende e persone, senza mai perdere di vista il fatto che si è insieme per generare profitto.

Secondo una recente indagine di Gallup sui fattori più importanti sul coinvolgimento dei lavoratori, a pesare moltissimo sull’engagement sarebbero proprio i manager, i responsabili/referenti diretti, i capiufficio. Come è possibile costruire una relazione sana e “ingaggiante” sul lavoro?

È effettivamente così, le persone restano o lasciano i capi, non le aziende, perché sono le relazioni che stringiamo a farci stare bene o male, e in azienda le relazioni significative sono quelle con i colleghi e i superiori.

Costruire una relazione sana e ingaggiante è un compito di entrambi, capi e collaboratori, e affonda le sue basi prima di tutto in una buona intelligenza emotiva: riconoscere le proprie emozioni e saperle gestire, riconoscere le emozioni degli altri e saperle affrontare e proporre comunicazioni assertive e non aggressive o passive. Oltre che la famosa resilienza.

Occorre inoltre capire e aver fiducia nell’altro (oltre che in noi stessi) e saper delegare, dare spazio, supportare.

Un leader deve anche avere obiettivi e visione chiara e saperla incarnare oltre che comunicare e condividere nel modo più appropriato per l’altra persona.

Se dovessi tracciare l’identikit del “capo” ideale, quali caratteristiche dovrebbe avere?

Nonostante la leadership relazionale sia oggi considerata dai più la migliore, il “capo” ideale ha a mio parere la capacità di vestire vari tipi di leadership in momenti e situazioni diverse. È infatti innegabile che persone diverse in momenti diversi della loro carriera possano aver bisogno di una guida più o meno ferma ed è compito del leader riconoscere e assecondare questo bisogno.

Sono molteplici gli studi al riguardo e si è visto che la flessibilità nello stile di conduzione dei collaboratori porta a risultati eccellenti.

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