Mai come in questo periodo ambiente lavorativo e team building hanno un’importanza strategica per le aziende per trattenere i talenti. Il benessere, i rapporti sul lavoro e la salute mentale vengono prima di una buona posizione o di uno stipendio adeguato. Ne sono la prova le cosiddette Grandi Dimissioni. Come costruire relazioni forti in azienda in questo complicato momento storico?
Relazioni in azienda, come costruire rapporti di fiducia
La sfida delle imprese, con una rivoluzione così evidente nelle esigenze dei lavoratori, passa da un lato dal garantire formule di smart working dall’altro da consolidare l’engagement delle proprie persone. Consolidare le relazioni in azienda diventa non solo necessario, ma urgente. Abbiamo voluto indagare con Caterina Bernardi e Valentina Serri, co-founder di Up2You, azienda che si occupa di formazione e team building, come le relazioni fra aziende e dipendenti, ma anche fra colleghi possono essere consolidate in un mercato del lavoro in grande evoluzione.
La pandemia ha rotto degli equilibri e trasformato il modo di lavorare, all’interno dei vostri percorsi avete riscontrato un approccio diverso al team building?
La pandemia, è stato detto più volte, oltre ad essere stata un grande elemento di disruption, ha funzionato anche da acceleratore di nuovi modelli di business, di organizzazione e di vita per tutti. Ha senz’altro cambiato i paradigmi, inizialmente con una forzatura che però ha permesso di fare un grande test.
La formazione, il modo di fare formazione e per certi versi anche i suoi contenuti, sono stati certamente anch’essi impattati. Ad esempio c’è stata una considerevole rivalutazione della formazione come elemento aggregante, di supporto. Molte aziende hanno attivato piani formativi (anche grazie a bandi finanziati che hanno supportato lo sforzo economico) basti pensare che sono state ammesse al fondo nuovo competenze 7500 aziende per un totale di circa 330.000 dipendenti).
In particolare i team building sono oggi percepiti come opportunità di “riconnessione” con se stessi, con i colleghi, con l’azienda. Sono stati vissuti momenti di rielaborazione del cambiamento, mediante esperienze metaforiche, di quanto vissuto e di attivazione di intelligenza collettiva oltre che emotiva. Mentre pre-pandemia il team building era vissuto come un momento di formazione oggi molto spesso chi scegli un evento di team building lo fa per creare un momento di incontro.
Inizialmente sono stati re-ingegnerizzati su base digitale alcuni format, anche con una piacevole resa e scoperta, per poi ritornare in presenza in questi ultimi mesi e molto spesso con un mix di digitale e presenza per rendere esperienza e impatto sui carichi di lavoro e sul budget più sostenibili.
Secondo voi, lo smart working ci ha resi più liberi o più isolati?
La risposta a questa domanda, per il nostro osservatorio è entrambi e dipende da come lo smart viene implementato. Lo smart working in Italia è stato fortemente accelerato a partire da marzo 2020 (anche qui forzato… c’era poco di smart all’ inizio) ma è stata questa un’opportunità per testare, dicevamo prima, e per riflettere su come mediare, fare sintesi tra maggiore libertà e work-life balance data da poter lavorare non solo in ufficio, e dall’altro la vicinanza e la connessione come momenti di valore.
Molte persone hanno capito che quello che serve su un piano di autoefficacia personale e professionale è la flessibilità e va bene poter lavorare da casa o da dove più congeniale ma serve anche avere momenti bene organizzati per fare delle cose insieme: paradossalmente nel hybrid workplace (dove posso fare un mix di lavoro dall’ufficio e da casa) serve maggiore organizzazione di prima (per evitare, ad esempio, di andare a lavoro e fare solo call perché i colleghi sono tutti da un’altra parte) e quel momento in azienda è un momento prezioso: stare insieme è prezioso e va fatto e organizzato nel modo giusto.
Agganciato a questo tema della necessità di un cambio di “modello operativo” delle aziende rispondono le evidenze apportate dai fenomeni sempre più dilaganti delle big resignation e del quiet quitting. Questi ci fanno capire come le diverse generazioni chiedono un modello organizzativo di maggiore autonomia, in cui i bisogni personali devono stare al centro ed essere rivalutati e lo smart working, inteso come lavoro agile e flessibile, potrebbe essere una prima risposta.
Le persone vogliono scegliere a partire dal loro purpose, soprattutto i più giovani. Che significa, per citare Simon Sinek ed il suo Golden Circle, ripartire dal perché facciamo le cose prima di pensare al come e al cosa.
Il vero smart working, inteso come organizzazione flessibile, agile, con una leadership più diffusa, non solo gerarchica di command and control non è più apprezzata, perché si è provato che c’è molta più efficacia in un sistema “circolare di motivazione, competenza e accountabily” che non deve polarizzarsi tra solo in ufficio o solo a casa ma su un mix funzionale di entrambi: cosi le persone non si sentono sole ma si sentono valorizzate. Dall’altro lato una leadership diffusa e che lascia autonomia non deve trasformarsi in assenza: sentiamo tante situazioni in cui le persone (senior e junior) si sentono smarrite, disorientate da un silenzio organizzativo. La gestione dei team ibridi è complessa e riteniamo che lavorare sulla leadership sia un’urgenza in molte organizzazioni.
Dunque forse la domanda da porre è: le persone si sentono valorizzate e ingaggiate nel nuovo modello di lavoro ibrido? E questo modello risponde alle nuove esigenze che sono emerse?
Di nuovo in questo senso la pandemia ha innescato nuovi modelli, valori, opportunità, complessità e vincoli. Come diciamo noi, adesso è “up2you”.
Da due anni a questa parte non si parla d’altro che di digitalizzazione, ma quali sono gli effetti del digitale sulle persone?
Molti sono gli studi e le ricerche che ci dicono che l’uso intensivo dei media digitali sia correlato a disturbi della memoria di lavoro. Il semplice vedere uno smartphone (nemmeno usarlo) riduce la capacità di memoria di lavoro e porta a una diminuzione delle prestazioni nei compiti cognitivi, a causa del fatto che parte del lavoro le risorse di memoria sono impegnate a ignorare il telefono stesso.
Più le persone usano i loro smartphone in modalità multitasking (passando rapidamente da un’app all’altra e da un’attività all’altra), più facilmente rispondono alla distrazione e in effetti ottengono risultati peggiori.
A questa va associato il fatto che tutto questo abbia un’influenza anche sull’empatia, altri studi (James et al., 2017) hanno evidenziato che nei giovani adulti ci sia una correlazione tra il tempo trascorso sui media digitali ed una minore empatia cognitiva con le altre persone. Questo potrebbe essere causato dalla mancanza di comprensione di ciò che le altre persone potrebbero pensare o sentire a causa di una maggiore difficoltà nel riconoscimento delle emozioni, proprie e degli altri o mancanza di tempo trascorso con le altre persone come conseguenza di un eccessivo tempo speso online.
Questo elemento va anche a connettersi con la mancanza durante call e incontro digitali del “gazing”, quel magico incontro di occhi che ci fa sentire connessi (per davvero) con qualcuno.
Questo non significa demonizzare l’uso del digitale; ci ha aperto mille scenari nuovi che vanno colti e esplorati. Significa avere consapevolezza di cosa significa l’uso eccessivo di questi strumenti e allenarci, come lavoratori ma prima di tutto come persone, a prendere una pausa dal digitale; abituarci a rispondere e non a reagire, a esprimere le nostre emozioni (un like è un giudizio) e a dibattere con opinioni che non condividiamo.
Con la pandemia abbiamo imparato a stare a distanza e ora facciamo fatica ad avvicinarsi fisicamente e anche il rapporto con il nostro corpo ha risentito del lockdown, come è possibile secondo voi tornare in contatto con il proprio corpo e a non avere timore della vicinanza fisica dei colleghi?
Crediamo che oggi il timore della distanza fisica sia stato sdoganato. Le persone sanno che ci deve essere attenzione ma la fase di paura forte è fortunatamente passata. Anche qui, abbiamo imparato delle cose dagli ultimi 2 anni e in primis le aziende lo hanno fatto, che in molti casi hanno implementato molte azioni di welfare e di formazione alla persona e al suo wellbeing ( pensiamo a corsi di mindfulness, yoga, possibilità di counselling, supporto per dipendenti e famigliari), cosi facendo hanno compreso che il bisogno, fisico e mentale, delle persone doveva prendere un ruolo importante e la cui facilitazione è anche “compito” dell’azienda.
Un altro fenomeno importante che sta emergendo, che afferisce all’area dell’accettazione dell’importanza della persona, dell’individualità del proprio dipendente, sta nei programma di Diversity, Equity and Inclusion. Quindi nel soffermarsi a valorizzare le differenze come elementi di valore (anche del business), di eticità, sostenibilità che facilità la vicinanza e la collaborazione.
Dunque non solo non si deve avere paura di stare vicini fisicamente ma serve non giudicare o isolare chi ha canoni, caratteristiche diverse dalle mie per poter essere più efficaci.
Quello che vediamo nelle aule in presenza è talvolta una resistenza iniziale: i partecipanti arrivano, prendono distanza. Dopo qualche minuto, la piacevolezza della connessione fisica ha il sopravvento e anche chi aveva qualche resistenza si rilassa e sorride. Insomma, in questi casi, ci sentiamo di suggerire anche di fare un piccolo passo ogni giorno: dare tempo ai team di ritrovarsi e riscoprire il piacere di stare con l’altro.
Oggi in molte aziende lavorano assieme persone appartenenti a 4 generazioni diverse, che hanno valori, necessità, linguaggi diversi, come è possibile creare squadra fra persone così distanti?
Il tema dell’attivazione di generazioni diverse sta diventando sempre più significativo. Non solo bisogna guardare ad una generazione di lavoratori che sta sempre più invecchiando e preparandosi alla pensione, in un sistema paese a tasso di natalità bassissimo, ma abbiamo nuove generazioni che si sentono molto distanti dai modelli aziendali attuali e che proprio per questo si “ritirano” emotivamente dal mondo del lavoro investendo poco delle loro competenze, passioni, talenti, idee e vanno nel cosiddetto “quite quitting”: lavorano ma non investono emotivamente e lavorare è un mezzo di mera sussistenza. In molti casi, accompagnando le aziende in survey di clima o di percezione sulla Diversity and Inclusion, vediamo come le generazioni più giovani chiedano una flessibilità, un’autonomia e al contempo una aderenza a valori di sostenibilità e di inclusione che spesso non trovano in azienda e che sono motivo di dimissioni o di malessere. Nel medesimo tempo, le generazioni più senior, che hanno invece un approccio molto legato al lavoro come parte fondamentale della propria vita, si sentono spaventati del futuro e non capiscono l’approccio più trasversale dei giovani.
Anche qui sostenibilità ed inclusione sono le risposte che le aziende più illuminate iniziano a dare ma a nostro avviso non si può fare un “copia e incolla” di soluzioni o policy. In una situazione cosi nuova ed in divenire, serve un approccio di “innovazione” per gestire il cambiamento ma soprattutto di co-creazione per capire di cosa c’è bisogno, analizzando il contesto e suoi protagonisti”, per creare prototipi organizzativi e test di soluzioni che rispondano davvero all’esigenza. In questo il design thinking rappresenta una metodologia potentissima, che permette di entrare in empatia con i diversi stakeholder e cogliere soluzioni ad hoc per le proprie realtà aziendali.
Quali consigli vi sentite di dare a un imprenditore che voglia creare un ambiente lavorativo collaborativo e produttivo?
Innanzitutto lavorare sul purpose sia dell’azienda sia dei suoi dipendenti: questo è un validissimo punto di partenza che rappresenta anche un’esigenza e aspettativa delle nuove generazioni.
In seconda battuta, provvedere ad una organizzazione incentrata sulla flessibilità e sull’autonomia più che su comando e controllo con una leadership improntata sull’agilità (mentale ma anche come prassi metodologica)- questa serve molto anche lato business- che crei un ambiente di fiducia, di sicurezza psicologica nella quale le persone si sentano di poter dare il loro contributo, nel quale l’errore è elemento di apprendimento dentro un processo di continuo miglioramento e innovazione.