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Il senso del potere? Alice Siracusano (LUZ): “Viene da dentro e l’ironia ci aiuta a coltivarlo”

Qual è il senso del potere oggi? Come lo si ottiene e come deve essere gestito? In un momento storico in cui la gerarchia aziendale intesa in senso tradizionale ha perso di efficacia, interrogarsi sul potere permette di comprendere come può essere esercitato sul lavoro.

La parola leadership è sulla bocca di tutti, da tempo. Decisamente meno usato invece è il termine “potere”. Perché? Sicuramente perché ci piacciono gli inglesismi, ma anche perché “potere” un po’ spaventa. Eppure, la questione è tutta lì: chi ha il potere in azienda? Come viene esercitato? Da chi è assegnato?

Sono domande che è bene farsi in un momento storico in cui il modello aziendale basato su una gerarchia rigida, dove controllo e autorità sono la regola, risulta ormai superato. Semplicemente non funziona più.

RIP a tutti i Megadirettori Galattici con la poltrona in pelle umana di fantozziana memoria.

Oggi collaboratori, lavoratori e dipendenti si riconoscono in responsabili competenti, preparati e pronti a concedere loro fiducia, stima e libertà. Che non significa rinunciare a una struttura aziendale dove c’è chi decide le strategie e chi svolge la parte più operativa utile al raggiungimento degli obiettivi prefissati, ma sottolinea, piuttosto, l’importanza delle relazioni all’interno di un ambiente lavorativo dove ognuno ha una sua funzione.

Quindi che senso ha il potere oggi? Lo abbiamo chiesto a Alice Siracusano, laureata in Finance&Administration, una carriera nelle agenzie di comunicazione seguendo campagne per noti brand, dal 2015 CEO e Partner dell’agenzia LUZ, docente in IULM, ma soprattutto autrice de Il senso del potere (FiordiRisose 2024), saggio nato proprio per indagare il tema, partendo dalla sua esperienza personale e professionale.

Alice, entriamo subito nel vivo della questione. Qual è il tuo senso del potere?

Ho ben chiaro il mio senso del potere: si tratta di riuscire a essere me stessa.

Bel concetto ma non è così semplice da applicare nella realtà. Quando si coordinano delle persone e si è inflessibili, c’è il rischio di essere fraintesi e sembrare troppo severi, se si è concilianti, si può finire con l’essere considerati con poco polso. Come se ne esce?

In questa frase, c’è già la risposta.  Le osservazioni che hai fatto sono vere ma partono da un giudizio esterno, cioè la preoccupazione per come gli altri percepiranno un certo modo di essere manager.

La chiave è non pensare a come gli altri interpreteranno un certo comportamento se lo senti autenticamente tuo. Io credo che questo sia il vero senso del potere. Potrebbe sembrare menefreghismo o egoismo ma non è così.

Essere se stessi vuol dire essere diversi da chiunque altro, a sua volta dagli altri. Il potere sta proprio nella nostra diversità perché, se riusciamo a essere noi stessi e a comunicarci per come siamo, saremo più solidi e più forti su ciò che è specificatamente nostro, acquisendo un potere che arriva da dentro e non che ci viene attribuito dagli altri o dall’esterno.

In questo modo possiamo contare su un potere forte perché costruito su ciò che è importante per noi.

Nel libro hai utilizzato pochissime volte la parola sempre molto in voga “leadership”. Come mai questa scelta?

Questa scelta si collega al ragionamento precedente. La parola leadership è stata completamente svuotata di significato. O meglio, è piena di significati stereotipati che l’hanno appiattita e fatta diventare uno slogan.

Anche il concetto di leadership gentile e di leadership empatica rischiano di diventare degli schemi perché tendenzialmente sono parole che hanno assunto una definizione lontana da come le persone le vivono autenticamente nel luogo di lavoro.

Proprio per ribadire l’importanza che hanno le parole, la prefazione è scritta da Osvaldo Danzi, fondatore di FiordiRisorse, e dalla sociolinguista Vera Gheno, che studia a fondo il significato delle parole. Uno dei concetti che emerge è che le etichette sono utili, tutti gli esseri umani interpretano la realtà tramite degli schemi, servono per dare un nome alle cose e renderle riconoscibili, ma non devono diventare delle prigioni o dei bias, che non ci rendiamo nemmeno conto di avere, attraverso cui interpretiamo in automatico la realtà.

Per questo motivo ho preferito usare la parola “potere”, meno cristallizzata di leadership e che ci mette anche un po’ a disagio. Proprio quel metterci a disagio apre un varco nella possibilità di riflettere sul termine e quindi di ridefinirlo.

Fai spesso dei parallelismi con i principi della cibernetica. Dove potere e cibernetica si incontrano?

Parlo di cibernetica e potere in relazione alle tesi di Gregory Bateson, antropologo, sociologo e psicologo, esponente della scienza della cibernetica, fondatore della terapia familiare a orientamento sistemico, che analizza la psiche degli esseri umani, non attraverso i traumi o le mancanze, ma attraverso le relazioni che l’individuo intreccia con i membri della famiglia, primo nucleo sociale che lo circonda, e poi con gli altri membri di gruppi di persone che frequenta.

La cibernetica, invece, è lo studio di come gli organismi tecnologici, le macchine evolute o gli algoritmi, per usare un termine molto attuale, si evolvono e migliorano.

Bateson ha analizzato i sistemi di funzionamento delle macchine e i sistemi di funzionamento di gruppi di persone dal punto di vista psicologico, trovando molte somiglianze. Non a caso le macchine sono progettate da esseri umani.

Questi ecosistemi si evolvono in un modo molto simile, ovvero tramite feedback. E questo permette di esplorare cosa sia un feedback generativo e cosa invece non lo è.

Un feedback generativo, tanto per le comunità di persone quanto per gli algoritmi, è un feedback non basato su qualcosa che manca, quindi non è un giudizio negativo, ma nasce da un’informazione che mette in evidenza qualcosa di positivo, che esiste e che può essere quindi misurato.

Se rifletti questo concetto va contro quel che in genere viene insegnato, ovvero di dare un feedback iniziando con gli aspetti positivi, per poi passare a quelli negativi e finire ancora con i positivi.

Ma perché mai dovremmo mettere in evidenza gli aspetti negativi? La risposta classica è perché in questo modo le persone possono migliorare dove sono deboli, ma questo è un bias.

Se ci venissero messi in evidenza solo gli aspetti positivi, noi li rafforzeremmo lavorando su di essi, fino a diventare degli enormi talenti individuali unici. Messi tutti insieme in una sorta di mente collettiva, altro concetto che richiama la cibernetica, saremo ancora più forti.

In un passaggio del libro sottolinei l’importanza delle funzioni e non dei ruoli. Ci spieghi meglio cosa intendi per funzioni e per ruoli?

Questo si collega alla tipologia di potere che a me piacerebbe vedere esercitato nelle aziende. Se un manager è forte delle sue potenzialità e non ha paura che qualcun altro le possa mettere in discussione, proprio perché queste potenzialità gli appartengono profondamente, il feedback degli altri potrà permettergli di migliorare ancora di più in ciò che lo rende unico.

Va detto però che questo può accadere solo all’interno di un ecosistema aziendale controllato, ovvero in un contesto dove le condizioni di libertà espressiva sono state regolate in base a linee guida che favoriscono l’autenticità e la trasparenza.

Ognuno deve sentirsi libero e a proprio agio nel dare e nel ricevere feedback, che non hanno a che vedere con il giudizio ma che vengono dati per permettere un miglioramento.

In questo contesto, se ho per esempio, la funzione di far sì che le procedure nella mia azienda siano il più fluide possibile e per esercitare questa funzione devo mettere in discussione il mio capo, che ha un ruolo molto specifico, perché sta facendo qualcosa che mina tale fluidità, è giusto che lo faccia e devo poterlo fare.

In questo senso la funzione ha la meglio sul ruolo.

All’interno di questo discorso si inserisce un nuovo modo di vedere il conflitto. In che senso, come sostieni, dovrebbe essere attivo e ricercarlo?

Anche in questo caso mi riferisco a un contesto controllato perché il conflitto potrebbe veramente poi degenerare.

La prima cosa da fare è smettere di pensare al conflitto come qualcosa di necessariamente aggressivo e da evitare.  

Se andiamo a vedere l’etimologia, per confliggere e scontrarsi bisogna essere molto vicini, altrimenti non può esserci urto.

Paradossalmente quando abbiamo una discussione con qualcuno, quando c’è disaccordo, c’è molto più vicinanza rispetto a quando ci facciamo stare bene le cose e stiamo zitti per non avere conflitti.

Tutto sta nel superare il conflitto. Se si rimane sempre nell’accordo, la relazione non evolve.

Quindi innanzitutto è importante separare aggressività dal conflitto. Ancora una volta l’ambiente di lavoro deve essere predisposto per accogliere un conflitto.

Ti faccio un esempio. In LUZ ogni mese e mezzo abbiamo un incontro tutti insieme che si chiama l’incontro delle tensioni dove ciascuno di noi, me compresa, ha la responsabilità di portare sul tavolo una tensione, qualcosa che ci fa stare male, anche fisicamente, e che ha a che fare con un altro membro del team. Quindi deve essere una tensione relazionale e lavorativa. Oltre a parlare della tensione si deve anche proporre una soluzione.

A quel punto i presenti sono liberi di fare delle obiezioni alla soluzione proposta e poi attraverso un processo democratico in cui tutti esprimono il loro punto di vista e le obiezioni di tutti vengono prese in considerazione, si arriva a un pensiero integrato dove la tensione trova una sua possibile risoluzione collettiva perché tutti sono stati ascoltati e hanno partecipato alla sua definizione.

Siamo partite parlando del potere che parte da dentro e dell’importanza dell’unicità. Ma come un team manager o una persona che occupa una posizione di potere può trovare la sua autenticità e il suo modo di ricoprire quel ruolo?

Il primo strumento che mi sento di consigliare è la terapia perché permettere di abbattere bias e schemi di pensiero ormai cristallizzati dentro di noi e che ci impediscono di vedere le cose in modo diverso. Per me è stata fondamentale.

Mi rendo conto, però, che non tutti hanno il privilegio di poter accedere alla terapia, per cui in alternativa o in aggiunta suggerisco alcuni allenamenti utili a recuperare la propria autenticità.

Fra questi uno dei più potenti è il prendersi in giro, ma anche consentire agli altri di prenderci in giro e di essere presi in giro a loro volta. Il che non vuol dire screditante o ridicolizzare.

Per allenare la capacità di ridere di sé stessi, in modo affettuoso, senza rimarcare delle mancanze, come prima cosa è utile frequentare l’ironia, anche banalmente andando a degli spettacoli di comicità o passare del tempo con delle persone ironiche e autoironiche.

Perché è tanto importante l’ironia? Perché è uno di quegli escamotage che ci aiutano a uscire da noi stessi e a vederci da una prospettiva più lucida. Il grosso ostacolo nel recupero della nostra autenticità sta tutto nel ripulire la nostra testa dai bias che abbiamo.

(In copertina foto di Alice Siracusano – credit: © Gabriella Corrado / LUZ)

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