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Certificazione della parità di genere: a che punto siamo in Italia?

Nel 2022 il governo italiano ha introdotto la Certificazione della parità di genere per favorire l’empowerment femminile e combattere il gender pay gap, ma questo certificato sta prendendo piede nel nostro Paese?

In Europa, secondo le stime, le donne guadagnano in media il 12,7% all’ora in meno rispetto agli uomini e non manca un forte squilibrio anche per quel che riguarda la presenza femminile nelle posizioni apicali.

Su questo fronte, il report “Women in the Workplace 2023” di McKinseyLeanIn.Org, analizzando la situazione lavorativa in America e in Canada, ha evidenziato come nonostante le donne stiano raggiungendo posizioni apicali più spesso che in passato, di fatto ricoprano solo il 28% del totale di quelle cosiddette in C-suite.

Nono solo, il Global Gender Gap 2023 ha sottolineato come il raggiungimento della parità di genere sia ancora molto lontano. Su questo fronte l’Italia perde ben 13 posizioni, classificandosi al 79esimo posto su un totale di 146 Paesi.

Insomma, se molto è stato fatto, ancora tanto resta da fare. Come stanno muovendosi le aziende italiane per colmare il gender gap e quali sono le caratteristiche del Certificazione della parità di genere? Lo abbiamo chiesto a Luca Furfaro, consulente specializzato nelle politiche del lavoro e del welfare e titolare dell’omonimo studio, secondo cui “le aziende dovrebbero avere più a cuore la loro responsabilità sociale d’impresa che include anche il gender pay gap e la certificazione ha la finalità di evidenziare quelli che sono gli standard che tutte le aziende dovrebbero avere”.  

Luca Furfaro

La parità di genere è ancora lontana da essere realtà, l’introduzione della Certificazione della parità di genere quanto può aiutare il percorso verso la parità?

La certificazione della parità di genere può sicuramente aiutare il percorso verso l’inclusione, attestando l’impegno delle aziende a riconoscere alle donne eguali diritti rispetto agli uomini e riconoscendo le politiche di welfare presenti, direttive ormai fondamentali a cui ogni impresa dovrebbe lavorare partendo dall’ascolto dei propri dipendenti.

L’obiettivo di questa certificazione è la creazione di un sistema nazionale di certificazione che possa così
migliorare le condizioni di lavoro delle donne, promuovendo anche la trasparenza in azienda e nei suoi processi. Se le misure atte a incidere sul problema del gender gap e del gender pay gap possono essere sicuramente di aiuto per arginare il problema, penso al contempo che sia necessario un cambio culturale, sebbene sia molto difficile.

Quali sono gli elementi fondamentali di questa certificazione?

Ogni azienda può richiedere la certificazione della parità di genere, ha una validità di tre anni e ci sono sei aree di valutazione per l’analisi dei fattori detti KPI: nello specifico le aree di valutazione sono cultura e strategia, governance, processi Human Resources, equità remunerativa, opportunità di crescita e inclusione e infine, genitorialità e conciliazione vita-lavoro.

Tutti questi parametri hanno un punteggio e dalla loro misurazione si ottiene un risultato che deve essere pari almeno al 60% per ottenere la certificazione. Vengono valutati quindi moltissimi aspetti, partendo da come sono scritti gli annunci di lavoro, affinché non siano discriminatori, il processo di selezione, l’aspetto retributivo per genere, le politiche di welfare, in particolare quelle per la famiglia, l’equa distribuzione tra i sessi nelle posizioni manageriali e direzionali. L’impegno delle aziende si traduce in un vantaggio contributivo dell’1%, un meccanismo di premialità che incentiva le compagnie a migliorare il gender gap
e in generale gli standard di comportamento etici.

A che punto siamo in Italia sul fronte della certificazione della parità di genere?

La certificazione della parità di genere è stata introdotta l’anno scorso ma si è diffusa soprattutto in questi ultimi mesi del 2023. Le richieste che mi sono pervenute al momento riguardano aziende dei settori più disparati e penso che questo possa essere considerato un segnale positivo della trasversalità della certificazione che ha la finalità di evidenziare quelli che sono standard che tutte le aziende dovrebbero tenere. Inoltre, ritengo che ci saranno sempre dei campi che avranno una prevalenza femminile, o al contrario maschile; la cosa importante resta garantire un equilibrio, sia in termini di opportunità che di remunerazione.

Al di là dei casi specifici, concedere alle donne gli stessi diritti degli uomini è un bisogno quasi fisiologico di un sistema che si sta evolvendo sempre di più e non è più lo stesso di 50 anni fa. Non si deve per forza raggiungere la stessa parità di presenza, ma sarebbe sempre arricchente avere delle differenze piuttosto che un pensiero uniforme. Questo significa fare inclusione di qualsiasi genere, valorizzare la diversità invece di discriminarla.

Quali sono, secondo lei, le azioni che le aziende devono mettere in campo per contrastare le diseguaglianze?

Sicuramente penso che le aziende dovrebbero avere più a cuore la loro responsabilità sociale d’impresa, in quanto anche il loro successo si lega all’assolvimento di progetti di natura sociale. Non dobbiamo dunque considerare questi aspetti slegati, bensì come parte di un unicum che include anche il gender pay gap. Il welfare aziendale potrebbe aiutare la causa offrendo a tutti le medesime capacità competitive e le medesime opportunità, ad esempio distribuendo i carichi familiari tra i due genitori o aiutando nella conciliazione famiglia-lavoro.

Non può essere una scelta quella tra lavoro e famiglia, e dobbiamo fare in modo che le cose coesistano. Ci sarebbe quindi bisogno anche di maggiore welfare, di carattere statale o territoriale, legato a strutture di assistenza (asili, assistenza anziani..).

Bisogna investire su politiche familiari, in ottica moderna, poiché è necessario potenziare gli interventi finalizzati a sostenere la genitorialità e la natalità.

Dopo il greenwashing, non si rischia il pinkwashing?

Si tratta di un rischio reale, soprattutto quando le aziende agiscono non per etica ma per interesse. Dato il delicato periodo in cui la questione è posta al centro del dibattito pubblico è necessaria una particolare attenzione, ricordando che la reputazione aziendale passa attraverso non solo dei valori economici ma anche sociali.

Per questo motivo la certificazione della parità di genere deve essere vista come un punto di partenza, l’inizio di un lungo cambiamento culturale del quale noi possiamo farci reali promotori. C’è ancora tanta strada da fare ma penso che ogni azienda dovrebbe ripensare alla sua sfera valoriale,
favorendo le politiche di vero welfare.

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