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Beniamino Pagliaro, autore del libro Boomers contro Millennials

Boomers contro Millennials: tutte le bugie sul lavoro raccontate alle giovani generazioni

Da “studia tanto e tutto andrà bene” a “se lavori come si deve presto avrai i soldi per comprare casa”, Beniamino Pagliaro in Boomers contro Millennials demolisce i luoghi comuni sul mondo del lavoro raccontando i problemi che le nuove generazioni si trovano ad affrontare: dai contratti meno tutelati alle pensioni fantasma. Giovani che per la prima volta in più di un secolo si trovano ad essere più poveri dei propri genitori.

Boomers e Millennials al lavoro: e se non fossero poi così diversi?

Le nuove generazioni hanno esigenze diverse da quelle precedenti e una delle sfide delle aziende è quella di far convivere quattro generazioni differenti al proprio interno. E se invece delle esigenze che contraddistinguono le generazioni si iniziasse a ragionare in termini di interessi comuni?

 A dispetto di quanto può suggerire il titolo del libro “Boomers contro Millennials – 7 bugie sul futuro e come iniziare a cambiare” (Harpers Collins) di Beniamino Pagliaro*, va proprio nella direzione di un patto fra generazioni. Forse utopistico per certi versi, ma indispensabile perché nessuno, davvero nessuno, si può salvare in una società dove ci sono squilibri fra generazioni.

Quali sono le 7 bugie indicate nel libro di Pagliaro? Innanzitutto, che studiare più dei propri genitori, imparare almeno due lingue straniere, riempire il curriculum di esperienze pronte all’uso per i futuri datori di lavoro, non è la garanzia di un florido percorso professionale. Il famoso motto “Bisogna avere un po’ di pazienza ma poi tutto arriva”, non è più vero.

I giovani, chiamati choosy o bamboccioni, ora sanno che non bastano studio e pazienza per avere una carriera che permetta loro di mettere su casa e famiglia.

Basti pensare che solo il 6% delle case è posseduto da under 35 e quasi il 65% della fascia 18-34 vive a casa di un genitore.

Del resto, più della metà degli under 35 guadagna meno di mille euro netti al mese. I giovani di oggi sono più poveri di quanto non fossero i loro genitori alla loro stessa età. Una drammatica verità che pesa sul futuro delle nuove generazioni.

Posto fisso addio, compensi adeguati addio, pensioni addio. E la politica in tutto questo latita. Insomma, oggi i Millennials (e non solo) si trovano a dover affrontare una situazione complessa.

Il libro di Beniamino Pagliaro si inserisce in questo contesto e analizza punto per punto tutte le storture che caratterizzano il nostro Paese a partire da una triste considerazione: “L’Italia è tra i Paesi europei avanzati con i salari più bassi. L’Ocse ha fotografato l’andamento dal 1990 al 2020 nelle economie europee: tutti i Paesi hanno avuto una crescita dei salari annuali medi: +33 per cento in Germania, +31 per cento in Francia, +30 per cento in Grecia, +24 per cento in Austria. L’Italia è l’unico a diminuire: -2 per cento.

Chi paga il conto? Sempre il prossimo, chi arriva per ultimo: uno studio dei Caf delle Acli nel 2022 racconta che la metà dei lavoratori trentenni si trova “tra la povertà assoluta e l’autosufficienza stentata”, con retribuzioni tra 8000 e 16.000 euro all’anno. Fra i trenta e i trentaquattro anni, dice uno studio di Inps ed Eurostat, il reddito medio è di 21.159 euro per gli uomini e 15.981 euro per le donne. Un lavoratore su dieci vive in condizioni di povertà, ovvero sotto la soglia di povertà, costretto a razionare la spesa alimentare. E un lavoratore su quattro ha un salario basso, ovvero inferiore al 60 per cento della mediana dei redditi.”

E ancora: “Di generazioni e futuro non si parla proprio, perché inesorabilmente non ragioniamo mai sulle conseguenze delle nostre scelte. Tamponiamo l’emergenza del minuto in corso, e domani vedremo. Così domani sarà indubbiamente più difficile.

La battaglia non è nei numeri, il nemico numero uno di questa generazione, e dunque di questo Paese, non sono soltanto i soldi che mancano, la coperta corta, le risorse calanti e il confronto costante con il passato. Il nemico è l’inerzia. Dobbiamo affrontare nuovi problemi con nuove idee, rifiutando l’ignavia dello sguardo del contabile fantozziano sommerso dal rispetto (simulato) per il megadirettore galattico. Cambiare si può, anzi si deve.

Beniamino, alla luce del mercato del lavoro che descrivi e delle criticità che i Millennials (e le generazioni successive) si trovano a dover affrontare, qual è il sentimento prevalente che provi, facendo tu stesso parte di quella generazione, nel pensare a questa situazione? Sei arrabbiato?

Sono preoccupato più che arrabbiato. Una certa dose di arrabbiatura ci sta e può essere anche positiva ma non deve poi diventare una giustificazione per non guardare la realtà in faccia che è proprio il problema che abbiamo.

Quindi va bene arrabbiarsi però poi le cose si risolvono guardando i numeri a mente fredda. Non è pensabile che sia l’emozione a guidare un ragionamento di questo genere.

Una delle bugie elencate nel tuo libro è il “grande mito che costruisce delle differenze insormontabili tra generazioni”. Boomers e millennials non sono poi così diversi allora?

Boomers e millennials sono diversi perché hanno un vissuto differente che determina come vedono il mondo ma poi le necessità sono comuni. L’esempio più classico è quello del lavoro ibrido: le nuove generazioni hanno sollevato una questione che pensavano fosse giusta e poi dell’introduzione dello smart working ne hanno beneficiato e ne stanno beneficiando tutti i lavoratori, indipendentemente dall’età.

In effetti c’è una rivoluzione in atto nelle aziende. Deve cambiare anche il modo di fare HR in azienda?

Qualsiasi direttore HR di un’azienda che vuole stare sul mercato e non andare incontro al declino sa che se vuole avere un gruppo di persone che lavora on lui o con lei devono essere soddisfatti del proprio lavoro, sa che la competizione è notevole, sa benissimo quanto costa fare ricerca e selezione del personale, conosce quanto può essere rischioso avere dipendenti non affezionati che alla prima occasione se ne vanno.

Non funziona più che vedono una persona quando la assumono e poi per il pensionamento. Il lavoro che fanno oggi gli HR è molto più importante, hanno la possibilità di incidere sui percorsi delle persone e quindi sul successo dell’azienda in maniera determinante e quindi. Io penso che sia una grande occasione in verità questa vero.

Non hai anche tu l’impressione che alcune istanze vengano prese molto più in considerazione adesso che non qualche anno fa?

Secondo me il tempo non passa del tutto inutilmente. Come dicevo, io sono preoccupato ma sono anche ottimista. Vedo che alcuni standard vengono raggiunti e poi non si torna più indietro. Aver visto la generazione precedente, magari fratelli o sorelle maggiori, insoddisfatta della propria situazione lavorativa ha fatto sì che le nuove generazioni abbiano maturato da un lato uno sguardo molto distaccato e ironico, dall’altra ancora più “killer”, passami il termine, nel senso di ancora più preciso.

Pensa per esempio all’attenzione alla crisi climatica. Un tempo era una battaglia di un gruppo ristretto di persone, ora è di tutti. Quindi le richieste, timide magari, fatte dai millennials in materia di clima poi sono servite anche alla generazione zeta e viceversa.

Quanto condizionano sul lavoro i pregiudizi verso una o l’altra generazione?

Nel capitolo dove ne parlo, sono partito ragionando su una ricerca di della Harvard Business Review che ha elencato i cliché che vengono attribuiti alle varie generazioni al lavoro: i boomers sono fuori dal mondo e arroganti; i gen X sono cinici e non si impegnano; i millennials si sentono in diritto di avere tutto; i gen Z sono narcisisti e non vogliono lavorare sodo.

Basta leggerli per rendersi conto di come questi cliché possano essere deleteri. Purtroppo, gli stereotipi hanno un impatto anche quando non sono veri, ma è chiaro che le generalizzazioni soprattutto sul lavoro non valgono.

Per questo i direttori del personale devono avere uno sguardo attivo e non passivo sulle proprie aziende. E’ importante parlare di questo tema, si devono organizzare degli incontri, perché solo parlandone, solo mettendo la questione sul tavolo la si può affrontare.

I pregiudizi ci sono, fanno parte della natura umana però creano dei danni e incomprensioni che generano poi anche danni economici alla fine, perché incidono sull’attività dell’azienda.

Parlare di questi temi generazionali è molto importante. All’inizio sarà difficile, ci sarò chi partecipa e pensa di buttare via il proprio tempo, ma per raggiungere gli obiettivi serve metodo, bisogna perseverare, solo così potrà esserci uno sguardo più consapevole.

Quando parlo di metodo intendo affrontare un problema anche scientificamente e quindi costruire dei percorsi che prevedano occasioni di scambio, incontro e confronto. In questo modo possono emergere debolezze che non erano state notate o considerate.

Nelle grandi aziende multinazionali già lo si sta facendo. In Italia scontiamo un certo scetticismo legato alla dimensione piccola-media delle aziende.

Sfatiamo altri miti che penalizzano le nuove generazioni: il cambiamento è possibile e il “problema culturale” può essere superato. La politica e le aziende devono fare la loro parte. Ma siamo pronti in Italia?

Effettivamente c’è questo problema e risolverlo è difficile. Ci sono alcuni temi su cui banalmente il mercato fa da sé e la maggioranza delle grandi aziende li fa propri e cerca di risolverli, pensa per esempio all’inclusione o alla qualità della vita dei dipendenti.

Il discorso è più complesso nelle piccole e microimprese che occupano una grossa parte dei dipendenti in Italia e che possono non avere la forza o la consapevolezza per intraprendere un percorso del genere.

In questo caso il mercato non basta, anzi potrebbe generare pressione su queste imprese e i loro lavoratori, lì c’è bisogno dello Stato con delle regole.

Nel libro cito il tema dei contratti del lavoro che per gli imprenditori sono un grande stress e ovviamente poi hanno delle conseguenze negative anche per i lavoratori: è il contratto giusto? C’è una detrazione? Un’agevolazione? Dove c’è poca chiarezza nascono i problemi.

Ecco perché serve un intervento chiaro che vada nella direzione di ridurre questo dualismo del mercato del lavoro in cui le persone fanno lo stesso lavoro ma sono pagate in maniera diversa e hanno tutele diverse.  

Ci vuole coraggio da parte di qualsiasi forza politica che prenda questo tema davvero a cuore. Se non lo facciamo, se continuiamo a far finta che vada bene così, creiamo disparità all’interno delle nostre aziende e alla fine le conseguenze sono negative anche per il Paese perché i lavoratori sottopagati non saranno in grado di comprare una casa e non saranno in grado di sostenere le pensioni del futuro.

La questione è urgente perché da un lato è personale, interessa tutti, dall’altro riguarda i conti pubblici dello Stato. Basti pensare che dal 2030 al 2045 la spesa pensionistica in Italia è prevista in forte crescita ma come si riuscirà a pagare le pensioni se non riducendo investimenti altrove e generando altre disuguaglianze che ricadranno ancora una volta sulle nuove generazioni?

In conclusione, se dovessi suggerire a un HR manager delle azioni da mettere in pratica da domani, cosa suggeriresti?

Consiglierei di programmare. Come ti ho detto, credo molto nel metodo, nella capacità di definire punto di partenza e di arrivo di un percorso e sulla base di ciò decidere come affrontare le criticità.

Il metodo ci consente di affrontare i temi ponendosi delle domande e disegnando un percorso. Ciò vale anche per la questione dei diritti e della parità salariale. Il paradigma è lo stesso che si tratti di inclusione, parità o salari.

Con visione e costanza, partendo anche da piccole azioni si aprono possibilità di cambiamento.

*Nato a Trieste nel 1987, Beniamino Pagliaro è giornalista, caporedattore di Repubblica e fondatore di Good Morning Italia. Ha iniziato a lavorare online, poi all’Agenzia ANSA. Nel 2015 è passato a La Stampa, dove è stato responsabile dello sviluppo digitale. Nel 2018 è approdato a Repubblica, dove ha lavorato all’Ufficio centrale fino al 2022, occupandosi di economia e digitale. Dal 2022 è responsabile della redazione di Torino di Repubblica. Nel 2013 ha fondato Good Morning Italia.

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