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Diversity&inclusion, Daniele Regolo (Openjobmetis): “Includere significa non discriminare, ma l’incontro con il diverso disorienta e turba”

Diversità e inclusione (D&I) sono temi di grande attualità oggi. Le aziende stanno riscoprendo l’importanza dell’unicità. Un concetto dove la diversità non è vista come un limite ma come un valore per raggiungere risultati e obiettivi.

Quando si incontra di persona Daniele Regolo, D&I Ambassador di Openjobmetis SpA, ci si dimentica completamente di essere di fronte a una persona con disabilità.

Affetto da una profonda sordità fin dalla nascita, Regolo ha affrontato il tema della Diversity&Inclusion, tanto di moda oggi, nel libro “La formula dell’unicità – Un nuovo percorso verso l’inclusione” (Mondadori Electa) e lo ha fatto in modo molto originale.

Lontano da concetti “buonisti” del “vogliamoci tutti bene e siamo tutti uguali”, va oltre il già detto e ascoltato, toccando corde che risuonano in tutti.

Un campo dove ancora oggi c’è molto da fare in tema di inclusione è sicuramente il lavoro. Sono poche le persone con gravi limitazioni ad avere un’occupazione, va meglio se si considerano quelle con disabilità meno limitanti, ma il mondo del lavoro continua ad avere delle difficoltà a essere inclusivo.

Non avere accesso al lavoro, significa non poter sperare di essere economicamente autonomi o di ambire alla realizzazione professionalmente.

A questo proposito è bene riflettere anche sui ruoli che il mercato del lavoro offre alle persone con disabilità: pensateci, quanti dirigenti o quadri con disabilità avete mai incontrato?

Ecco allora che parlare di D&I diventa urgente e importante, ma è bene farlo fuori da logiche di brand reputation prettamente marketing oriented, per evitare che dopo il greenwashing si cada nel inclusion-washing.

Daniele, nel suo libro spiega che il termine “inclusione” non è quello più corretto e anzi potrebbe addirittura essere fuorviante. Perché?

Nel libro scrivo che, tutti noi, abitiamo da sempre sul pianeta Terra in Via Lattea snc: chi dovremmo includere esattamente? Inclusione è un concetto sacrosanto che, mal compreso e peggio gestito, può rivelarsi l’esatto contrario, cioè causa di esclusione. Detto questo, è chiaro che tutti continueremo ad utilizzare questo termine, ma dobbiamo essere vigili perché vuol dire che stiamo evidentemente riparando un danno già compiuto: quello della discriminazione. Soprattutto nei confronti delle fasce più deboli.

Parlandone, si tende a fare confusione fra diversità, inclusione ed equità, trattandoli come sinonimi o quasi. Ci aiuta a capire cosa differenzia questi termini? E, aggiungo, si parla tanto di linguaggio inclusivo, ma è davvero questo il punto?

Nell’immaginario collettivo, oggi, si tende a considerare inclusivo un contesto in cui – con una certa evidenza – si ritrovano insieme persone molto diverse tra loro (per etnia, genere, disabilità). Questa non è sempre inclusione! Questa è una rappresentazione della diversità umana, siamo tutti d’accordo, ma includere significa ben altro. Significa non discriminare. Che presuppone un altro processo. Il linguaggio si inserisce in modo prepotente in questa discussione: vero, le parole pesano, ma pesa ancora di più il reale sentimento di ciascuno di noi. Davanti a quello non si può fingere.

Nel volume parla dell’importanza di passare da un altruismo a volte forzato (e forse non sempre sincero) a un egoismo evolutivo. Ci spiega cosa intende con questa espressione?

Soprattutto quando l’incontro con l’altro ci tocca corde profonde, ci disorienta, ci turba, la via più sbagliata è quella di sforzarsi nell’accettare il prossimo senza un ragionamento interiore più profondo. Il problema non sono gli altri (come sono “fatti” gli altri), ma come siamo… fatti noi. Siamo sufficientemente centrati in noi stessi per saper accogliere il prossimo, chiunque esso sia, in modo allo stesso tempo distaccato e pieno di empatia? Ecco perché, prima di dedicarci all’altro, dobbiamo, grazie allo specchio che il prossimo rappresenta per noi, saperci fortificare e maturare. Solo attraverso questa via di accesso alla diversità saremo nelle condizioni di sperimentare una coesistenza di più alto valore.

Inutile negarlo, in questo periodo la D&I è di moda. Allora, provocatoriamente le chiedo: c’è il rischio di “inclusion-washing” da parte delle aziende e le certificazioni sono davvero utili?

Il rischio c’è sempre. Ecco perché, ciò che davvero conta – e che poi avrà reale peso sul mondo circostante – è che il percorso verso l’inclusione sia fatto in modo intellettualmente onesto. L’azienda che muove piccoli, ma sinceri passi, porterà più valore di quelle realtà interessate, spesso in modo ansiogeno, a comunicare i loro traguardi. La questione, quindi, non sta nelle certificazioni, ma nel rapporto dialettico che esiste tra i traguardi formali che si raggiungono e la coerenza con la realtà che si vive. Un equilibrio, quello tra forma e sostanza, che attiene all’intimità dell’azienda stessa.

Il successo di un’azienda si misura in termini di risultati. Esiste, secondo lei, una correlazione fra D&I è produttività?

È uno dei temi che affronto nel libro. Le ricerche, oggi, dimostrano che può esserci una correlazione (ambiente più inclusivo uguale maggior produttività) ma non è un dato che possiamo considerare di relazione diretta. Mi rendo conto che è un tema spinoso, ma se vogliamo davvero ragionare in modo aperto dobbiamo pensare in modo diverso: non è una variegata umanità (lo dico con un pizzico di ironia) a garantire che c’è rispetto per le diversità, ma sapere che è in corso un continuo processo di abbattimento delle barriere che impediscono l’evoluzione di ciascuno. Il risultato che ne verrà fuori sarà davvero fedele al merito.

A lungo i criteri ESG sono stati associati al rispetto dell’ambiente, oggi è sempre più chiaro a tutti che non esiste sostenibilità senza inclusione. Quali azioni concrete pensa che la società, le istituzioni e le aziende devono mettere in campo per essere davvero sostenibili?

Sono assolutamente d’accordo: questi temi toccano aspetti fondamentali della nostra vita economica e sociale e non possono più essere considerati disgiunti tra loro. Direi che la parola prima è “cultura”. Solo promuovendo una conoscenza dei fenomeni che ci circondano, e nell’analizzare in modo quanto più obiettivo quali costi richiedono i nostri progressi, possiamo elaborare, possibilmente in rete e senza gelosie, delle soluzioni che sicuramente non saranno appariscenti, ma sicuramente saranno concrete.

“Le persone non disabili in generale percepiscono la menomazione come molto più negativa e limitante di coloro che ne fanno esperienza diretta” è una frase di citata nel suo libro. Mi conceda una domanda che può sembrare irriverente: la disabilità è negli occhi di chi guarda?

Direi proprio di sì!

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