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Social: si può licenziare per un post?

Il ruolo dei social network nel contesto lavorativo è sempre più rilevante e controverso. Le pronunce della Cassazione dimostrano che un utilizzo improprio di questi strumenti, anche al di fuori dell’orario di lavoro, può determinare conseguenze gravi per il dipendente, fino al licenziamento per giusta causa.

Social: diritto di critica e obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro

I social network rappresentano oggi una componente importante della vita di tutti i giorni, influenzando inevitabilmente anche le dinamiche lavorative. Questo avviene non solo in fase di selezione del personale, ma anche nel corso del rapporto di lavoro. L’uso improprio di questi strumenti infatti può avere ripercussioni disciplinari significative. La mancanza di una normativa specifica che regoli in modo chiaro l’utilizzo dei social in ambito lavorativo ha spinto molte aziende a dotarsi di regolamenti interni, con lo scopo di contemperare il diritto di espressione del lavoratore con la tutela degli interessi aziendali.

Il tema centrale è il bilanciamento tra il diritto di critica, riconosciuto al dipendente, e l’obbligo di fedeltà e riservatezza nei confronti del datore di lavoro. La giurisprudenza ha chiarito anche che i post pubblicati su profili personali possono essere rilevanti ai fini disciplinari, in quanto la natura pubblica dei social rende i contenuti potenzialmente visibili a una platea ampia e indeterminata. La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 10280 del 2018, ha affermato che la diffusione di messaggi offensivi attraverso bacheche virtuali può integrare una condotta diffamatoria proprio per la capacità di raggiungere un pubblico molto vasto.

I casi esaminati dalla Corte di Cassazione

Numerose pronunce della Corte Suprema hanno confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa in presenza di condotte illecite compiute attraverso i social. In particolare, la Cassazione ha recentemente affrontato il caso di un lavoratore che aveva pubblicato sulla bacheca Facebook di un collega commenti ingiuriosi e minacciosi rivolti alla dirigenza aziendale. Nonostante il tentativo di cancellare i messaggi e di sostenere che il profilo fosse stato oggetto di furto, il licenziamento è stato ritenuto legittimo (Cass. 24 ottobre 2024, n. 27601).

Allo stesso modo, la Cassazione ha confermato il licenziamento di un lavoratore che, dopo essere stato reintegrato a seguito di un precedente licenziamento, aveva pubblicato sul proprio profilo Facebook video e fotografie il cui contenuto eccedeva i limiti del diritto di critica (Cass. 17 maggio 2024, n. 13764). La Suprema Corte ha inoltre ritenuto legittimo il recesso nei confronti di un rappresentante sindacale che aveva utilizzato Facebook per pubblicare commenti volgari e offensivi, idonei a ledere il decoro e la reputazione del datore di lavoro (Cass. 8 novembre 2023, n. 35922).

Anche quando il lavoratore non utilizza direttamente i social per esprimere il proprio dissenso, la diffusione online di immagini o contenuti inappropriati può aumentare la gravità della condotta. Un esempio in tal senso, è il caso di un autista che aveva utilizzato il display di bordo per veicolare un messaggio volgare, successivamente immortalato e diffuso online. La Cassazione ha evidenziato come la pubblicazione sui social abbia amplificato la portata dell’offesa, legittimando il licenziamento per giusta causa (Cass. 13 marzo 2023, n. 7293).

Le valutazioni dei giudici e l’importanza del contesto

L’illegittimità della condotta del lavoratore, secondo la giurisprudenza, non richiede necessariamente la menzione esplicita del nome del datore di lavoro. È sufficiente che questi sia facilmente identificabile dal contenuto del post. La Corte di Cassazione ha ribadito che la gravità del comportamento dev’essere valutata alla luce delle circostanze concrete e della diffusione del messaggio.

In questo senso, risulta interessante il caso in cui è stata confermata la sospensione di un dirigente amministrativo che aveva molestato una stagista. Dapprima chiedendole l’amicizia su Facebook e successivamente monitorandone il profilo per formulare commenti inopportuni e allusioni personali (Cass. 13 giugno 2022, n. 18992). Altre pronunce hanno chiarito che anche messaggi condivisi in gruppi chiusi o chat private possono essere rilevanti qualora i contenuti risultino gravemente offensivi e idonei a ledere il clima aziendale o l’onorabilità dei superiori.

In conclusione, se utilizzati con superficialità o con intento offensivo, i social possono compromettere gravemente il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e dipendente. Le numerose sentenze della Cassazione evidenziano come la libertà di espressione, seppur tutelata, incontra limiti laddove viene lesa la reputazione aziendale o violati i doveri fondamentali del lavoratore.

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